Nel quinquennio 2018 – 2022 le motivazioni inerenti allo scambio di informazioni tra stakeholder e aziende, in tema di sostenibilità, è completamente cambiato. Sono cambiate le informazioni che gli stakeholder vogliono ottenere così come è cambiata, per le aziende, la rappresentazione degli scopi della rendicontazione.
Questi cambiamenti sono motivati da drastici, e a volte drammatici, cambiamenti del contesto socioeconomico, reali e percepiti.
La presente analisi è dedicata alla costruzione di un quadro aggiornato disponibile per chi si appresti o continui a monitorare e rendicontare le proprie o altrui iniziative sulla sostenibilità.
Un inventario dei cambiamenti
Si è assistito, nel periodo considerato, ad una serie di repentine modificazioni di una serie di paradigmi dei quali trattiamo di seguito.
Comparsa e affermazione di prodotti finanziari “green” e fenomeni di “greenwashing[1]”
Non impattare negativamente sull’ambiente e sulla socialità era, all’inizio del periodo considerato, una questione di brand reputation. La sostenibilità veniva presentata come un romantico plus a basso costo; un vantaggio competitivo che funzionava toccando le coscienze. Gli uffici marketing cercavano di presentare qualcosa di “green” spesso coniugata con i requisiti specificamente qualitativi del prodotto (es.: “carni italiane da filiera controllata proveniente da animali allevati a terra …” oppure “apparecchiature che consumano meno energia”). Considerati vantaggi “morali” per il consumatore, venivano presentati senza una puntuale definizione. L’esempio forse maggiormente eclatante in questo senso riguarda il mercato dell’auto (elettrica) dove il vantaggio per il consumatore non viene declinato.
Il secondo concept di sostenibilità che si è andato via via affermando riguarda la possibilità che la quest’ultima potesse essere un’opportunità di business. L’articolo del totem Michael Porter sullo “shared value”[2] ha avuto un impatto, per dimensioni, pari solo alla sua incompletezza e imprecisione.
In realtà gli obiettivi per la sostenibilità, ai vari livelli (aspetti economici e di governance, aspetti ambientali e aspetti sociali) spesso non convergono. Per le aziende, infatti, solo in alcuni casi è possibile creare valore con iniziative sulla sostenibilità, anche se in qualche caso la possibilità c’è; più spesso, si tratta di investire (quindi, sostenere dei costi) con l’obiettivo di poter, nel tempo, ridurre le spese e incrementare l’autonomia (ad esempio “energetica”).
In ogni caso i fenomeni appena descritti, e il buon successo in chiave marketing di molte delle iniziative hanno favorito l’affermazione di prodotti finanziari (azionari e obbligazionari) creati su aziende autodefinitesi “sostenibili”. L’aumento della richiesta di questi prodotti ha generato la necessità di una sempre maggiore offerta prefigurando la creazione di una “bolla” simile a quella correlata ai mutui subprime del 2008.
Il fenomeno del greenwahsing, quindi ha due cause distinte ancorché intersecantesi: il tentativo da parte delle aziende di acquisire un vantaggio competitivo d’immagine e il “bisogno” degli istituti di credito di poter vendere prodotti finanziari che il mercato richiedeva.
Le conseguenze hanno riguardato la presentazione sul mercato, da parte delle aziende, di prodotti e processi la cui sostenibilità era poco significativa o insignificante e tendenziosa.
Le banche hanno creato proprie metriche; alcune di manica molto larga.
La “reazione normativa”
Le istituzioni di governo, sovranazionali e nazionali hanno reagito secondo tre paradigmi distinti:
Gli esiti di queste azioni hanno portato a metriche ancora in fieri che tuttavia mettono in primo piano la resilienza (più passivamente definito adattamento n.d.r.) agli impatti outside-in, ovvero quegli impatti che dall’esterno “colpiscono” l’azienda (piuttosto che quelli inside-out, ovvero quelli generati dall’azienda e diretti verso l’ambiente).
Quelli afferenti al punto c) permettono di mantenere lo sguardo anche a fenomeni macro a lungo termine le cui conseguenze, tuttavia, ormai si iniziano a percepire, pesantemente, anche nel breve termine.
La reazione degli istituti finanziari
Le banche e le istituzioni interbancarie hanno compreso che era necessario “fare sul serio” anche perché la macchina giudiziaria aveva, in qualche caso, mostrato i muscoli con “poco rispetto” (naturalmente stiamo ironizzando) anche nei confronti di banche importanti (vedi Deutsche Bank e il suo asset management DWS).
Ragionevolmente hanno accettato di competere con regole omologhe e hanno approfondito i temi del rischio finanziario collegato alla sostenibilità. Lo hanno fatto sia delimitando la “positività” presunta dei portafogli green (se riduco lo span dei prodotti da inserire in un bond, definendo un sottoinsieme caratteristico aumento la rischiosità dei prodotti che appartengono a quell’ambito più ristretto rispetto all’insieme totale dei prodotti) sia condividendo criteri condivisi per parametrare certe tipologie di rischiosità.
Nei documenti pubblicati negli ultimi mesi, vengono identificate tre tipologie di rischio principale: i rischi fisici (da eventi estremi o dipendenti da sedimentazione di effetti che si cumulano nel tempo), quelli di transizione tiene conto dell’impatto negativo che potrebbe produrre l’introduzione di politiche climatiche volte a ridurre le emissioni di gas serra e quelli sistemici (per esempio quelli legati alla generale carenza di una materia prima). Si fa notare che nella precedente sezione, La “reazione normativa” (punto c)), gli interventi sulla sostenibilità venivano predisposti per ottenere effetti positivi; nella prospettiva che stiamo esaminando diventano un rischio.
Gli ultimi periodi
La crisi delle materie prime e la guerra hanno quasi sovvertito lo scenario iniziale.
Gli stakeholder più “interessati” non sono più i semplici cittadini e il territorio che ormai accetterebbero qualsiasi cosa pur di poter vivere dignitosamente e senza concrete ossessioni che bussano alla porta.
Le banche si sono rese conto che non si tratta più di ottenere ritorni maggiori o minori dalle attività di finanziamento delle imprese, ma di scommettere su realtà che potrebbero non sopravvivere nel mercato di riferimento se non si attrezzano per tempo. I quant (analisti quantitativi nelle attività bancarie) trovano conforto nella verifica dei bilanci da parte di enti di parte terza in merito alla qualità e alla consistenza delle politiche per la sostenibilità di un’impresa. Le loro competenze, infatti, afferiscono ad un settore differente rispetto a quello degli specialisti della rendicontazione sulla sostenibilità che approfondiscono temi come “energia”, “rifiuti”, emissioni. L’assurance di parte terza sui bilanci di sostenibilità rappresenta un ulteriore garanzia.
Le aziende si ritrovano ad operare sostenendo costi impensabili che mettono a rischio la loro stessa esistenza. I problemi di sopravvivenza sono legati all’incremento dei costi delle materie prime e dell’energia dovuti in parte a problemi strutturali di limiti alla crescita e crisi climatica, in parte a problemi di natura speculativa o per la guerra Ucraina – Russia.
Gli enti governativi e intergovernativi, non avendo a disposizione modelli e competenze per gestire la crisi economica si ritrovano impreparati fino allo stordimento di fronte al prevedibilissimo crollo di tutti i parametri che regolano il mercato e l’ambiente tout court ancorché le informazioni decisive per un cambio di rotta fossero disponibili dal 1972[4], esattamente mezzo secolo fa.
La moderna rendicontazione sulla sostenibilità
Anche la descrizione che ha per oggetto il valore distribuito deve essere predisposta in modo tale da evidenziare gli investimenti in sostenibilità da cui ci si aspetta il ritorno pianificato. Naturalmente altri scopi potranno essere perseguiti come, ad esempio, l’incremento di gradimento della presenza di una determinata attività sul territorio. In ogni caso le informazioni di tutti gli ambiti dovranno evidenziare una relazione reticolare e convergere sugli obiettivi principali.
[1] Neologismo inglese che generalmente viene tradotto come ecologismo di facciata o ambientalismo di facciata, indica la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.
[2] Michael E. Porter and Mark R. Kramer, Creating Shared Value, in Harward Business Review, 2011.
Michael Eugene Porter è un accademico ed economista statunitense. Professore alla Harvard Business School, dirige l’Institute for Strategy and Competitiveness ed è l’autore di modelli e teorie universalmente riconosciuti come la “catena del valore” e le “cinque forze competitive”.
[3] I Certificati bianchi sono titoli negoziabili che certificano i risparmi energetici conseguiti negli usi finali di energia, realizzando specifici interventi di efficientamento. Nati come Titoli di Efficienza Energetica (TEE), termine divenuto oggi sinonimo e che compare nei Decreti Ministeriali (D.M.) 24 aprile 2001, modificati e aggiornati rispettivamente da altrettanti decreti del 2004 e 2007. Costituiscono uno dei meccanismi per incentivare progetti di efficienza energetica. L’Italia è il primo Paese al mondo ad avere applicato questo meccanismo per incentivare l’efficienza energetica negli usi finali.
[4] Cfr. Il Rapporto sui limiti dello sviluppo (da The Limits to Growth. I limiti dello sviluppo), commissionato al Massachusetts Institute of Technology dal Club di Roma, fu pubblicato nel 1972 da Donella Meadows, Dennis Meadows, Jørgen Randers e William W. Behrens III.
[5] Cfr. tra gli altri: Robert S. Kaplan, David P. Norton, Balanced scorecard. Tradurre la strategia in azione, ISEDI, 2000 e Robert S. Kaplan, David P. Norton, L’impresa orientata dalla strategia. Balanced Scorecard in azione, ISEDI, 2002.